Il Sogno di Campaldino
Sceneggiatura illustrata per il Cinema e il Teatro
di Giovanni Enrico Arrighini
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QUANDO LA POESIA DIVENTA L’IPOTESI PIÙ PLAUSIBILE
Piccola nota critica su "Il Sogno di Campaldino"
di Giuseppe Cordoni
“Ama il tuo sogno
Ogni inferiore amore disprezzando,
Il vento ama
Ed accorgiti qui
Che sogni solo possono essere veramente.
Perciò in sogno a raggiungerti m’avvio”.
Ezra Pound
(tr. G. Ungaretti)
Che in ogni tempo l’umana intelligenza abbia applicato buona parte dei suoi migliori talenti alle tecniche della guerra rimane un mistero d’iniquità sulla potenza male. Ancor più sconcertante un paradosso di senso che essa sia giunta persino a definirla come un’arte. Un ossimoro: l’Arte della Guerra! Poiché sempre votata a provocare morte e distruzione, affatto inconciliabile con le altre Arti, tutte invece destinate al servizio della vita.
Generando la coscienza del Bello, medicando le infermità e ponendo le basi necessarie d’ogni armonica relazione fra gli individui e fra gli stati. Ecco perché, da sempre, quest’arte impropria (la guerra) e la Poesia non potevano che configgere in uno scontro perenne e senza vie d’uscita.
Così, da attori e testimoni al tempo stesso, la figura e lo sguardo del poeta hanno attraversato ogni guerra, ponendo il proprio sogno d’armonia come un argine al dilagare del Nulla. Lo hanno fatto sotto le mura incendiate di Troia; in schiavitù, hanno taciuto e appeso la cetra alle fronde dei salici per non umiliare la propria voce; lungo la Linea Gotica, rinchiusi in una gabbia sotto il sole, sono stati presi per folli; in silenzio, si sono inginocchiati sulle spianate di Auschwitz o di Hiroshima, sgomenti lì, dinnanzi allo sfacelo conseguente al Peccato Finale.
Ed è proprio questo il leitmotiv che alimenta e attraversa questo assai singolare adattamento scenico Il Sogno di Campaldino di Giovanni Enrico Arrighini, secondo il quale sono proprio loro, i poeti, gli irriducibili resistenti all’evidenza demolitrice del Male inesplicabile: “Perciò essi s’inventano le loro storie / per vivere e morire mille volte”. E forse sono in grado di riuscire nel loro intento, poiché per ognuno di loro vale quanto Pierre Reverdy asserisce sulla precipua loro condizione spirituale: “Il poeta si trova in una posizione difficile e spesso pericolosa, all’incrocio di due piani crudelmente affilati, quello del sogno e quello della realtà”. Affamato dell’Essere e sgomentato dal Nulla, egli non può che prefigurarsi per via onirica un benché minimo pertugio di libertà che ci conduca oltre l’ottusa muraglia di quel “vero”, per cui la guerra seguita ad essere una calamità inestirpabile, quasi che fosse anch’essa una evenienza pressoché naturale e dunque, senza scandalo, accettabile.
Del resto, egli ben sa come la propria vita altro non sia che un sogno perpetuo: non essendo ad altro egli chiamato se non a sognare la realtà e a renderne perseguibile la percezione. Quella realtà che purtroppo rimane invisibile alle moltitudini ma che eppure poi s’impone come la più inequivocabile e profonda. Così non è alla propria e singola salvezza ch’egli guarda, quanto piuttosto ad entrare nel solco del grande sogno comune a, cui loro malgrado, tutti gli uomini aspirano confusamente o persino a loro stessa insaputa. Accoglie la realtà del sogno di chi lo precede per cederne, nella sua corsa, in dono il testimone all’altro sognatore che viene. Perché, anche quando più infuria la battaglia, la pietà non venga meno; e sul campo, sognatore inguaribile, qualcuno s’aggiri con i segni dell’umano: l’arte medica che lenisce, la preghiera che consola, la speranza d’un canto che ci liberi.
Sono questi gli effetti indiscutibili di ciò che la poesia, intesa nel suo senso ampio, umilmente saprebbe regalarci. Ed Arrighini qui ce li rende efficacemente palpabili, in virtù d’una sua stringata visione simbolica che conferisce all’azione scenica una flessibilità svincolata da ogni ancoraggio alla contingenza del vero. Così sospesa com’è in questa sua volatile dimensione onirica, essa procede per ondate di memoria che si rincorrono o, se si vuole, per quadri che, a prima vista, paiono apparire e dissolversi senza un nesso preciso. Mentre poi invece, proprio in questo loro apparente ondivagare da un’epoca all’altra, da una guerra all’altra, da un personaggio all’altro, indagano un medesimo senso sotteso: quello di volerci rivelare l’essenza e l’autenticità del sogno con cui ci si pone come un argine alla devastazione del Nulla: “Ama il tuo sogno / Ogni inferiore amore disprezzando”. Poiché, venendo meno il suo afflato, gli uomini smarriscono ogni prefigurazione di cosa sia il Paradiso e finiscono per accontentarsi e abituarsi, senza rimedio, all’orrido Inferno in cui malamente si trascinano.
Chiave di volta ne è, dunque, la figura del poeta stesso, umiliato e in catene, additato come un nemico, passato per un folle (Ezra Pound), ridotto all’anonimato di un numero: il Paziente 11011972 e internato nel manicomio di Washington. È lui che, dovendo immaginarsi mille vite per non morire, come estremo gesto di libertà, si tuffa nell’oceano senza rive di tutto ciò che è risognabile ancora; e così innesca quella reazione a catena che vince lo spazio-tempo e approda all’idea d’un Paradiso di bellezza salvata. Ad una Venezia immortale e sospesa sull’eco di tutte le musiche che l’hanno avvolta: “Che la sua grazia è divenuta in me / una cosa di lacrime”.¹
Dai pigri fumi neri che sputano le ciminiere dinnanzi al manicomio in cui è recluso alle nubi tempestose che avvolgono la battaglia di Campaldino in cui il giovane Dante da poeta per coerenza di cittadino è chiamato a rischiare di “dannarsi” facendosi soldato, eccolo, l’Ezra Pound della Litania notturna ad una Venezia emblema di tutta la minacciata bellezza del mondo, trasmigrare ed incarnarsi in ciascuno dei personaggi principali di questa pièce. O, per meglio dire, eccolo, attraversare la loro coscienza dilaniata dalla guerra: tanto da presagirvi (lui, che tutto sembra aver già vissuto, sentito e sofferto) a quale rischio mortale, ancor prima della loro stessa vita, sia ormai esposto il loro sogno di salvezza; e come quella che era la loro una visione di pienezza vitale stia diventando invece una cosa di lacrime.
Perché, per l'Autore, il prezzo della fedeltà e della coerenza con il proprio sogno salvifico implica sempre e comunque un’ipoteca sull’anima. E, per non dannarsi, occorre infatti riuscire ad accettare la fluidità di questa nostra esistenza terrena e non pretendere da parte nostra d’imporre alcun domino sulle creature e sulle cose.
Così, guai al ragazzo, barcaiolo sull’Arno, che baratta l’anima col diavolo in cambio del vigore d’una permanente giovinezza. Guai a Buonconte da Montefeltro che ha “vissuto una sola vita / sempre con le armi in pugno”. Guai a Vieri dei Cerchi che s’impone su tutti mentre invece non riesce a comandare quella sua vanità che lo riduce, immodificabile, per sempre prigioniero di se stesso.
Al contrario, ecco quei personaggi che un’innata grazia poetica rende liberi. Così mobili come sono, permeabili, aperti e pronti a mutare esistenza e travasare ciò che sentono con i sentimenti di coloro che incrociano sul loro cammino (mentre invece i corazzati nella loro presunta identità ciecamente continuano a farsi la guerra). Ecco i fiduciosi nel possibile: come Eliseo dalle molte vite e Dante e Cecco Angiolieri e la vecchia cercatrice d’erbe magiche e la bambina che sogna davanti alla luna e persino il suo gatto, la cui pelliccia cangia di continuo colore.
Va detto, infine, come Arrighini esalti questa contrapposizione fra rigidità e movimento, morte e vita, violenza e armonia con un complesso e singolare risultato stilistico. Infatti, l’originalità strutturale di questa pièce risulta tutta giocata su un’agile sintesi di molteplici registri espressivi sovrapposti e armonizzati: la corporeità dell’attore, la plasticità d’una parola poetica pressoché “musicata” metricamente, la concomitante fugacità dell’immagine proiettata. Con un effetto decisamente sinestetico sullo spettatore e tale da essere anch’egli trascinato attraverso la concretezza e l’evanescenza d’un sogno inafferrabile.
Pietrasanta, 15 febbraio 2021
Giuseppe Cordoni
¹EZRA POUND, Litania notturna a Venezia (1908, trad. di Mary de Rachewiltz),